Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Si ricorda brevemente che ai sensi dell’art. 1 della Legge 604/1966, il licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato può avvenire solo per giusta causa o giustificato motivo.
Per quel che qui ci interessa, il giustificato motivo oggettivo attiene, ex art. 3 Legge 604 del 1966, “a ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Nel caso di un lavoratore licenziato illegittimamente da un azienda con almeno 15 dipendenti presenti nella sede di lavoro dello stesso, o 60 in tutta la Società, l’art. 18 co. VII dello Statuto dei Lavoratori prevede due tipi di tutela differente: una tutela reale, consistente nella reintegra o
un’indennità sostitutiva di reintegra (pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) oltre ad un risarcimento danni da liquidarsi in massimo 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e una tutela indennitaria forte consistente in una liquidazione da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Il primo tipo di tutela ricorrerà laddove il Giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; mentre troverà applicazione la tutela indennitaria forte nelle altre ipotesi in cui comunque non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo.
La manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo.
Sul concetto di “manifesta insussistenza”, dottrina e giurisprudenza si sono soffermate a lungo, al fine di individuarne il discrimen rispetto all’altro concetto di “mera insussistenza”, che condurrebbe al riconoscimento della sola tutela indennitaria ai sensi dell’art. 18 co. VII seconda parte.
Sul punto l’autore Prof. Valerio Speziale ha affermato che per “manifesta insussistenza” si intende “la carenza della ragione organizzativa o quando essa, pur presente, non ha un rapporto causale con il recesso” (Valerio Speziale, “La riforma del licenziamento individuale” pag. 563). E in ossequio a tale ragionamento, esemplifica Speziale che l’inesistenza di una crisi d’impresa o la sua scarsa importanza costituiscono un’ipotesi di manifesta insussistenza (ad esempio l’azienda continua a realizzare utili, ovvero assume lavoratori, apre nuove sedi ecc.)(doc. n. 19).
Dunque, l’esistenza del requisito della manifesta insussistenza, ai fini dell’applicazione della tutela reale, viene accertato indagando sul grado di intensità dell’ingiustificatezza avuto riguardo a: a) alle ragioni organizzative addotte dal datore di lavoro; b) alla mancanza del nesso di causa
tra la soppressione del posto di lavoro e le ragioni organizzative.
Del medesimo parere è l’autore Prof. Avv. Franco Scarpelli, che a pagina 88 del suo manuale “Guida alla Riforma Fornero (Legge 28 giugno 2012 n. 92)”, afferma “…qualora il giudice accerti l’insussistenza della situazione indicata dal datore di lavoro, la non verità o non effettività della ragione economica addotta o dell’operazione organizzativa che viene affermata alla fonte del recesso, la non consistenza della stessa o l’inidoneità a giustificare, in termini di causalità (e dunque ancora di fatto), le affermate ricadute sulla posizione del lavoratore, dovrà ritenersi la “insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, con possibile applicazione della tutela reintegratoria.
La stessa cosa deve dirsi per…il c.d. obbligo di repechage…poiché anch’esso è un elemento di fatto idoneo a confermare (o smentire) l’effettività della condizione che fa venire meno l’interesse del datore di lavoro alla prosecuzione del rapporto di lavoro (doc. n. 20).
Anche la giurisprudenza si è espressa in tal senso. Ad esempio, il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 15 ottobre 2012, ha inteso il fatto addotto quale motivo di licenziamento, come un unicum complesso e come tale da valutare nei suoi elementi soggettivi ed oggettivi e nella sua gravità, tanto da ordinare la reintegra del lavoratore anche innanzi ad un fatto effettivamente accertato, ma non ritenuto così grave da giustificare un licenziamento.
Ancora, il Tribunale di Reggio Emilia, nell’ordinanza emessa in data 11.11.2014, in linea con i pronunciamenti dei giudici di merito (c.f.r. Trib. Genova ord. 08.10.2013; Corte d’Appello di Torino sentenza 600/ 2014 del 21.05.2014), ha attribuito all’aggettivo “manifesta” portata
qualificativa del fatto storico complessivamente addotto a ragione del licenziamento.
Nelsuddetto provvedimento, il Giudice specifica che il legislatore ha inteso, sì, limitare i casi di annullamento del licenziamento, ma ha anche precisato giustamente che il “torto (ndr del datore di lavoro nel licenziare il dipendente) può emergere anche dopo lunga ed articolata attività
processuale, poiché non sempre l’inesistenza dei fatti addotti come ragioni aziendali di carattere tecnico, organizzativo o produttivo è ictu oculi evidente. Può darsi anzi l’eventualità che occorra un’indagine lunga e complicata per giungere ad accertare una radicale inesistenza delle ragioni datoriali”. Prosegue il Tribunale di Reggio Emilia sostenendo che sia corretto ritenere manifestamente insussistente un motivo che è totalmente inesistente, ma anche un fatto, le cui componenti essenziali (difficoltà economica – riorganizzazione – soppressione del posto) non sono state provate o perché la ragione oggettiva addotta si rivela un mero pretesto per licenziare il prestatore d’opera.
Dunque, la verifica del Giudice, per stabilire la manifesta insussistenza o meno del giustificato motivo oggettivo, non dovrà essere circoscritta alla mera esistenza dei singoli fatti, ma dovrà necessariamente riferirsi alla pluralità di circostanze, tra loro necessariamente collegate dal punto di vista logico – causale, che compongono il fatto posto a fondamento del licenziamento. Ovvero il legislatore ha inteso conferire rilevanza non tanto alla fattispecie storica quanto a quella giuridica, che emerge nel corso del procedimento.
In sintesi, la manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo ricorre quando non esiste o non è così grave la motivazione addotta dal datore di lavoro, tale da rendere legittimo il licenziamento e, ancora, non risulta vera l’asserita impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno dell’azienda (c.d. obbligo di repechage).
In merito a quest’ultimo aspetto, si ricorda brevemente ciò che la giurisprudenza unanime afferma da sempre in merito all’obbligo di repechage: “il datore di lavoro deve dimostrare, con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita (c.d. repechage)…. ” (Cass. Civ. Sez. Lav. 23.10.2013 n. 24037. Vedi anche ex multis Cass. Civ. Sez. Lav. 05.03.2015 n. 4460; Cass. Civ. Sez. Lav. 08.02.2011 n. 3040; ).