LA CASSAZIONE DICE “NO” AL CRITERIO DEL TENORE DI VITA
In questi giorni, è sulla bocca di tutti la notizia della clamorosa decisione della Corte di Cassazione, cristallizzata nella sentenza n. n. 11504/17, con la quale i giudici di legittimità, per la prima volta nella storia del diritto di famiglia, hanno affermato che, ai fini dell’individuazione del “se” e del “quanto” dell’assegno di mantenimento dovuto al coniuge economicamente più debole, è irrilevante il criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Sino a tale pronuncia, per giurisprudenza costante, l’organo giudicante doveva, compatibilmente con i redditi dell’obbligato, stabilire, in favore del coniuge più debole, un mantenimento che permettesse al medesimo di godere dello stesso tenore di vita avuto in costanza di matrimonio. Nella sentenza richiamata, invece, i giudici di legittimità hanno precisato che se, da un lato, il dovere al mantenimento dell’ex coniuge trova fondamento nell’obbligo costituzionale di solidarietà, dall’altro lato tale dovere non può essere determinato “in ragione” del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto” , ma piuttosto dovrà sorgere laddove solo, venga dimostrato che il coniuge non è indipendente economicamente e non è in grado di procurarsi da solo i mezzi adeguati per il suo sostentamento.
Dice la Suprema Corte, in questa decisione, che solamente il criterio dell’indipendenza o autosufficienza economica del coniuge garantisce una corretta applicazione del criterio di solidarietà previsto dalla nostra Costituzione, mentre accordare al coniuge, seppure indipendente economicamente, un diritto al mantenimento, in base al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, secondo la Corte, vuol dire porre in essere un ingiusto arricchimento derivante dalla mera preesistenza di un rapporto matrimoniale ormai concluso.
Dunque, dopo ventisette anni in cui i giudici hanno sempre fatto appello al criterio del tenore di vita, per la determinazione dell’assegno di mantenimento, con questa decisione la Suprema Corte ha dichiarato apertamente che il suddetto orientamento non è più attuale per molteplici
ragioni:
1.Il parametro del tenore di vita, come detto sopra, collide con la natura stessa dell’istituto del divorzio, con la cui pronuncia il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale.
2.La scelta di detto parametro implica l’omessa considerazione che il diritto all’assegno di divorzio è eventualmente riconosciuto all’ex coniuge richiedente, nella fase dell’an debeatur, esclusivamente come “persona singola” e non già come (ancora) “parte” di un rapporto matrimoniale ormai estinto.
3.Il tenore di vita, secondo la Corte di Cassazione, è stato utilizzato negli anni per tentare di “salvaguardare” il matrimonio come “sistemazione definitiva”, perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale” (così la sentenza n. 11490 del 1990) con l’esigenza di non turbare un
costume sociale ancora caratterizzato dalla “attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perchè sorti in epoca molto anteriore alla riforma “. Oggi, secondo la Corte, è invece riconosciuto da tutti, il matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità. Dunque, l’individuo che si sposa, assume il rischio di una eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post matrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
4.L’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.
5.Tale interpretazione è in linea anche con le decisioni assunte nel tempo relativamente al mantenimento del figlio maggiorenne che, se economicamente autosufficiente o reticente nel procurarsi da solo i mezzi di sostentamento seppur ne sia perfettamente in grado, non ha diritto al mantenimento. Secondo la Corte “Tale principio di “autoresponsabilità” vale certamente anche per l’istituto del divorzio, in quanto il divorzio segue normalmente la separazione personale ed è frutto di scelte definitive che ineriscono alla dimensione della libertà della persona ed implicano per ciò stesso l’accettazione da parte di ciascuno degli ex coniugi – irrilevante, sul piano giuridico, se consapevole o no – delle relative conseguenze anche economiche ”.
La Corte di Cassazione, in questa articolata sentenza, offre anche un elenco degli indici, in virtù dei quali stabilire se un coniuge sia indipendente economicamente, ai fini dell’individuazione della necessità o meno di stabilire per lo stesso un diritto al mantenimento. I criteri sono i
seguenti1) il possesso di redditi di qualsiasi specie;
2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza (“dimora abituale”: art. 43 c.c., comma 2) della persona che richiede l’assegno;
3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, alsesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo;
4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Questa decisione rappresenta certamente un terremoto giurisprudenziale in linea con gli orientamenti degli altri Paesi europei, nei quali l’assegno divorzile dipende essenzialmente dai patti prematrimoniali.
Da tale sentenza, recente giurisprudenza ha però già preso le distanze. Anzi la stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 11538 dell’11 maggio 2017, ha stemperato un po’ l’effetto di clamore suscitato dalla pronuncia (n. 11504) del giorno prima, questa volta riconoscendo la spettanza dell’assegno di divorzio alla ex moglie richiedente, pur se la stessa non aveva assolto all’onere probatorio circa l’inesistenza assoluta di ogni possibilità di lavoro.
I Giudici Supremi si sono qui appellati alla natura assistenziale dell’assegno di divorzio, disposto in favore della parte che non disponga di redditi sufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa, seppur richiamando la necessità che l’assegno debba essere contenuto nella misura in modo tale da impedire illegittimi arricchimenti. Analoghe considerazioni non valgono invece per l’assegno di mantenimento a seguito di separazione, che, al contrario, deve continuare a consentire al coniuge beneficiario di mantenere lo stesso tenore di vita che possedeva in costanza di matrimonio. A questa conclusione, la giurisprudenza giunge sulla scorta della sostanziale diversità tra contributo spettante al coniuge separato ed assegno divorzile in quanto fondati su presupposti e su discipline normative totalmente differenti. La separazione personale dei coniugi, a differenza del divorzio, non incide sulla permanenza del vincolo coniugale. Per l’effetto, il dovere di assistenza materiale, nonché il principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi proprio in relazione all’obbligo di consentire al coniuge separato di mantenere lo stesso tenore di vita precedentemente goduto, rimangono tali.
Ciò si evince dalla sentenza n. 12196 del 16 maggio 2017, resa dalla Cassazione in ordine alla vicenda di separazione di un noto personaggio politico, oppostosi all’ingente assegno mensile di mantenimento richiesto dalla moglie. Ma i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso, proprio facendo leva sull’elevato tenore di vita goduto dalla donna in costanza di matrimonio, che non avrebbe certo potuto mantenere con le proprie sostanze.
Sicuramente la sentenza in esame ha dato un forte “scossone” allo storico orientamento in materia di diritto di mantenimento e continuerà ad agitare gli animi dei giudici di merito e di legittimità, che sicuramente, nel breve futuro, avranno modo di esprimere il proprio orientamento in linea o contro questa pronuncia. Non resta che attendere gli sviluppi per capire quale tesi diverrà dominante.