Il reato di diffamazione è contemplato all’articolo 595 c.p. e prevede che:
“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato), la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa [57-58bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), ovvero in atto pubblico la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate“.
Al primo comma troviamo quindi l’ipotesi di diffamazione “semplice” per la quale è prevista la pena della reclusione fino ad un anno e la multa fino a 1032 euro. Al secondo comma si sostanzia la fattispecie aggravata, consistente nell’attribuire con l’offesa arrecata alla persona un determinato fatto. Per quest’ultima la pena consiste nella reclusione fino a due anni ovvero nella multa fino a 2065 euro.
È infine al terzo comma che viene contemplata l’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Quest’ultimo termine abbraccia e contempla all’interno del suo alveo anche tutta la “galassia” dei social media, fra i più conosciuti: Facebook, Twitter e Instagram. Per coloro che commettono una fattispecie di reato inquadrabile al terzo comma dell’art 595 c.p. la pena comminata sarà quella della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa non inferiore a 516 euro.
Prima di addentrarci nell’analisi della diffamazione a mezzo social è doveroso chiarire quanto stabilito dalla Cassazione Sez. Penale in merito alla comminazione delle pene stabilite per la violazione dell’art. 595.
La Suprema Corte, infatti, nella Sentenza n. 33495/2020 stabilisce che la pena detentiva debba essere intesa come extrema ratio rispetto a tale tipologia di reato, anche e soprattutto sulla scorta di quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ( Sentenze 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia, 22 aprile 2010, Fatallayev c. Azerbaigian e 6 dicem,bre 2007, Katrami c. Grecia, 7 marzo 2019 Sallusti c. Italia).
Riportando il focus sulla diffamazione online, la Corte di Cassazione ha statuito con sentenza n. 4873 del 2016 che: “La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico.”
In essa, quindi, da un lato non viene riconosciuto al social media Facebook il carattere di “mezzo stampa” (concetto ribadito anche dalla Cass. Sez. Penale Sent. 3148 del 2019), dall’altro lato, però, viene qualificato tale strumento come un “mezzo di pubblicità”, capace di raggiungere un vasto numero di utenti e di potenziare la cassa di risonanza di eventuali diffamazioni.
Il concetto di diffamazione, e del suo conseguente reato, viene controbilanciato dal diritto di critica contemplato all’art 21 della Costituzione il quale prevede che: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, che in alcuni casi funge da causa di giustificazione ex art 51 c.p.
Tuttavia, affinchè un’affermazione o un’esternazione, da chiunque proferita, integri l’espressione del diritto di critica e non ricada, al contrario, nel concetto di diffamazione devono essere rispettati determinati limiti, come stabilito dalla sent. n. 3148 del 2019 Cass. Sez. Pen. Primo fra questi è il limite della veridicità ovvero il contenuto della critica deve essere limitato alla oggettiva esistenza di dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse. Secondo è il limite della continenza, ovvero il rispetto della dignità altrui, non potendo la “critica” costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale.
Inoltre, al fine del concretizzarsi della fattispecie del reato di diffamazione, non è necessario che una determinata affermazione ingiuriosa identifichi palesemente il soggetto a cui è diretta, potendosi lo stesso integrare anche quando il soggetto a cui la stessa è diretta (e la cui reputazione è stata lesa), sia inequivocabilmente individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dall’indicazione nominativa, mediante il ricorso a fatti e circostanze di notoria conoscenza. (Cass Pen. sent. 4025/2019 e sent. 16712/2014).
Non solo Facebook ma anche l’applicazione Whatsapp è inquadrabile nell’alveo dell’art 595 co3 c.p.. Infatti, la Corte di Cassazione recentemente ha affermato riguardo a Whatsapp che: “Le affermazioni lesive dell’onore e del decoro della persona offesa enunciate sullo status di whatsapp posso integrare il reato di diffamazione qualora i contenuti ivi presenti siano visibili ai contatti presenti in rubrica” (Cass Pen n. 33219 del 2021).
Il risarcimento dei danni.
La parte offesa, che si ritrova diffamata e lesa nel proprio onore a causa di affermazioni ingiuriose e diffamanti, può agire, oltre che in sede penale, anche in sede civile per il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione di reputazione. Questa particolare tipo di lesione viene qualificato come danno della sfera interiore e alla vita di relazione, nonché come danno morale. La persona lesa nella propria reputazione, di fatto, si sente frustrata, perseguitata ed ossessionata perché ha perso il controllo sulla propria identità morale, professionale, culturale, che vede manipolata da altri. Altera il proprio stile di vita. Non usa più internet o, al contrario, passa ore e ore a rileggere compulsivamente sul web i contenuti che la riguardano o alla ricerca nevrotica di altri contenuti negativi sul proprio conto.
Il danno patrimoniale non è in re ipsa, ma è un c.d. danno-conseguenza determinabile e quantificabile in base a diversi fattori quali ad esempio: il tempo di permanenza del contenuto lesivo, il numero di visualizzazioni e condivisioni, il numero di persone che lo hanno commentato e la gravità del fatto attribuito o dell’offesa proferita.
È necessario, inoltre, provare il nesso causale tra la pubblicazione di contenuti idonei a ledere la reputazione personale, professionale e sociale della persona offesa e la successiva diminuzione patrimoniale.